IL TRIBUNALE

    Verificata  positivamente  la  tempestivita'  e  ritualita' della
domanda,  la  congruita'  del  versamento  dell'oblazione, la data di
ultimazione  della  struttura  abusiva  entro il termine del 31 marzo
2003  e  le  altre  condizioni  rimesse  alla  cognizione del giudice
ordinario,   osserva   come   assuma  rilevanza  l'applicazione  alla
fattispecie   della  causa  d'improcedibilita'  sopravvenuta  di  cui
all'art. 38  II legge n. 47/1985 richiamato dal comma 36 dell'art. 32
del titolo II del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito in legge
24 novembre 2003, n. 326.
    In  relazione alla rilevanza, va preliminarmente considerato come
il  comma 36  dell'art. 32 su citato indichi tra le condizioni per il
verificarsi  dell'effetto  estintivo  di alcuni dei reati contestati,
oltre  alla  presentazione  nei  termini della domanda di definizione
dell'illecito edilizio e l'integrale versamento dell'oblazione, anche
il decorso di trentasei mesi dalla data del «suddetto pagamento».
    In  concreto,  ove  il richiedente si avvalesse interamente della
facolta'  concessa  dalla  legge, i trentasei mesi decorrerebbero dal
30 settembre  2004  (data  ultima  possibile per il completamento del
versamento  della  somma  dovuta)  e l'estinzione dei reati di cui al
secondo  comma  dell'art. 38 legge n. 47/1985 non potrebbe aver luogo
prima dell'ottobre 2007.
    Se  cosi'  fosse, sussisterebbero seri dubbi circa la adeguatezza
costituzionale della norma in relazione a molteplici aspetti quali la
ragionevolezza  intrinseca  della  disposizione  che terrebbe sospesa
l'azione  penale  per  un  tempo  abnorme ed il rispetto dei principi
dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale  e della ragionevole durata
del processo.
    Invero  la  finalita'  della  disposizione emerge dal complessivo
tenore   del  medesimo  articolo  di  legge  che,  alla  proposizione
immediatamente successiva, dispone che «trascorso il suddetto periodo
di trentasei mesi si prescrive il diritto al conguaglio o al rimborso
spettante».
    Una  doverosa  lettura  dell'intero  testo del comma 36 cit. (pur
nella  difficile  collocazione teorica della definizione di «diritto»
riferita  al  «conguaglio»  e  di  «prescrizione»  di  esso  a fronte
dell'integrale  versamento  dell'oblazione  che dovrebbe configurarsi
come  un  «onere»  del richiedente la sanatoria) evidenzia pero' come
l'intenzione  del  legislatore sia stata quella di fissare un termine
ultimo  per  la  definizione  amministrativa  degli illeciti sotto il
profilo  dell'ammontare  del versamento della somma dovuta cosi' che,
dopo  tale  lungo  termine,  diventano  «inesigibili»  gli  eventuali
conguagli o rimborsi.
    Allo  spirare dei trentasei mesi infatti la somma corrisposta non
diventa   affatto   congrua   se  tale  non  e',  ma  si  «prescrive»
semplicemente  la  possibilita'  per  la  p. a. e per il cittadino di
chiedere rispettivamente quanto non riscosso o indebitamente versato.
    Non va escluso pertanto che, anche prima del termine di trentasei
mesi,   verificate   tutte   le   altre  condizioni  della  complessa
fattispecie  estintiva  in  questione, il giudice penale possa trarre
dal  fatto  le conseguenze previste dalla legge posto che peraltro il
giudicato  rende  in  ogni  caso  irripetibili  le  somme versate dal
richiedente a titolo di oblazione.
    In  secondo  luogo, la questione sarebbe comunque rilevante anche
qualora  si  ritenesse  non  possibile  l'estinzione  dei  reati  con
l'applicazione  della  causa  di  improcedibilita' sopravvenuta prima
dello  spirare  dei  tre  anni,  perche'  questo  giudicante dovrebbe
comunque   dar   corso  al  procedimento  di  cui  al  capo IV  della
legge n. 47/1985,   sospendendo   il  giudizio  con  atto  del  tutto
necessario  ed intrinseco alla procedura estintiva che viene pertanto
attivata  avendo  la  parte  manifestata  la volonta' di avvalersi di
essa.
    Venendo  ora  al  merito  delle  questioni  che  si  rimettono al
giudizio  della  Corte,  posto  che le attuali disposizioni del cosi'
detto   condono   edilizio   sono   state   precedute  da  altri  due
provvedimenti   similari   quanto   alla   struttura  procedurale  ed
all'effetto  estintivo  dei  reati  con  la  legge  n. 47  del 1985 e
l'art. 39  della  legge  n. 724  del  1994,  deve rilevarsi come, con
scadenza   pressoche'   decennale,   venga   a  riprodursi  un  terzo
provvedimento   di   sanatoria   che,   nell'ambito   della  relativa
distinzione  tra  il  reato e sua punibilita', incide su quest'ultima
che  viene  subordinata  a  condizioni esterne ed estranee all'offesa
realizzata.
    Le  norme  relative  ai  primi due condoni sono state piu' volte,
sulla base di molteplici considerazioni rimesse al vaglio della Corte
che  ha  pero'  ritenuto  che esse non contrastassero con principi di
rango  costituzionale.  Molti  dei  remittenti  avevano  osservato in
proposito  come  la  non  punibilita'  dovesse  essere  valutata  dal
legislatore  in  funzione solo delle finalita' «proprie» della pena e
non  con  riguardo  a situazioni del tutto estrinseche ed estranee al
reato contestato: ove l'estinzione della punibilita' contrastasse con
tali finalita', ove risultasse variante arbitraria tale da svilire il
senso  stesso  della comminatoria edittale, la normativa in questione
non avrebbe potuto considerarsi costituzionalmente legittima.
    La  Corte  di contro ebbe a rilevare (sent. n. 369/1988) come «il
legislatore moderno, non solo abbia attribuito alla "punibilita'" una
"consistenza"  ed  un  "valore"  autonomi rispetto al reato, ma abbia
dimostrato  come  la medesima potesse anche essere usata per ottenere
dall'autore  dell'illecito  prestazioni  utili a fini spesso estranei
alla tutela del bene offeso dal reato».
    Finalita'  economico-finanziarie  non  erano  certo estranee alle
disposizioni  in discussione e dichiaratamente non lo sono con ancora
maggiore  evidenza  relativamente a questo terzo provvedimento le cui
norme  sono  inserite  sotto il titolo «Correzione dell'andamento dei
conti  pubblici», ma tali disposizioni andavano riguardate (a parte i
«limiti»  del  potere  di  clemenza)  nella  loro oggettiva tutela di
differenti valori.
    Ha  osservato  la  Corte  che rimettendo all'autore dell'illecito
l'esclusione della punibilita', il legislatore ha sovente indirizzato
la  condotta  del  reo susseguente al reato al raggiungimento di fini
dallo  stesso  legislatore desiderati; escludere in qualche misura la
punibilita' era pertanto condizione indispensabile per raggiungere un
apprezzabile  obbiettivo  di  carattere generale: in cambio del venir
meno  della  sanzione  penale  era  imposta l'autodenuncia (da qui la
ratio  dell'art. 39  legge  n. 47/1985  che prevedeva l'estinzione di
alcuni  reati  anche  se  l'abuso  non  fosse  sanabile) e quindi una
completa  ricognizione  dell'illegalita' reale e l'adozione di misure
idonee  a  far cessare la situazione emergenziale in atto relativa al
diffuso e perdurante abusivismo di massa.
    A tal proposito la Corte (sent. n. 427/1995), in riferimento alla
prima «replica» del 1994 aveva rilevato il perdurare della situazione
di  emergenza  e  come,  contestualmente all'estinzione dei reati, il
legislatore  avesse posto in essere anche strumenti nuovi rispetto al
condono  del  1985  volti  a  rendere  piu'  restrittiva  ed efficace
l'azione  di  governo  del territorio e la repressione degli abusi da
parte degli enti locali territoriali competenti.
    Pertanto  la  sanatoria degli illeciti edilizi ed urbanistici non
entrava  in  conflitto con il quadro costituzionale ed in particolare
con  il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione
e   dell'obbligatorieta'   dell'azione   penale   trovando   la   sua
ragionevolezza  storica,  ordinamentale e sistemica in una situazione
eccezionale  ancora  in corso e nella necessita' di porre fine ad una
stagione  di  illegalita'  generalizzata  chiudendo  con il passato e
ponendo   le   condizioni  per  un  nuovo  futuro  di  piu'  rigorosa
regolamentazione e tutela dell'assetto territoriale.
    Secondo  la  Corte,  il legislatore aveva cioe' «ragionevolmente»
introdotto  le  norme  delle  prime  due sanatorie in presenza di una
situazione  grave  e diffusa di illegalita' con la finalita' di porvi
rimedio   attraverso  un  intervento  complesso,  ma  definitivo  per
realizzare il quale era necessario prevedere anche la non punibilita'
di alcuni reati.
    Oltre   alle  «ragioni  contingenti  e  straordinarie  di  natura
finanziaria» la sanatoria, «condonando il passato» trovava allora una
giustificazione   proprio  nella  predisposizione  di  strumenti  che
avrebbero evitato per il futuro la consumazione di ulteriori condotte
illegali.
    Le   argomentazioni   della   Corte   all'indomani   della  legge
n. 714/1994   erano   teoricamente  condivisibili  in  ragione  della
obbiettiva  difficolta' di porre in atto compiutamente, nei nove anni
intercorsi  dal 1985, da parte della p.a. il riordino del territorio,
la   remissio   in   ius  degli  abusi  sanabili,  la  demolizione  o
acquisizione  delle strutture non sanabili, la eventuale rinnovazione
di  strumenti urbanistici nonche' la redazione dei piani paesistici o
urbanistico-territoriali  previsti  dalla legge n. 431 del 1985 molti
dei quali non ancora realizzati nel 1994.
    La   situazione  di  emergenza  perdurava  quindi  in  quanto  le
amministrazioni  preposte  a  rendere operativa la normativa del 1985
non avevano dato definitiva operativita' ai nuovi strumenti previsti.
    Concludendo questa premessa va pero' osservato come tale percorso
argomentativo,  se  valido  circa  dieci  anni or sono al momento del
secondo condono, deve essere oggi opportunamente riconsiderato.
    La  prospettiva  di  poter  realizzare, attraverso questo tipo di
legislazione  «condonistica»,  la  palingenesi della programmazione e
del  buon governo del territorio e la fine dell'«abusivismo di massa»
si e' dimostrata infatti del tutto fallimentare.
    Le preconizzate condotte virtuose, la cessazione dell'illegalita'
diffusa,   il   recupero   della  programmazione  territoriale  e  la
conservazione    del   paesaggio   e   dell'ambiente   cui   si   era
«ragionevolmente»  sacrificata  la retribuzione dei reati commessi si
sono dimostrati, a distanza di circa venti anni dal primo condono, di
fatto  inattuati  ed in concreto inattuabili attraverso gli strumenti
di  recupero inseriti nella stessa normativa di sanatoria che, con il
senno dell'oggi, appaiono, rispetto al fine, del tutto velleitari. Le
buone  intenzioni  di  cui era lastricata la normativa «condonistica»
sono rimaste tali ed il fenomeno dell'abusivismo di massa, nelle zone
in   cui   sussisteva,   non   e'   per  nulla  diminuito  a  riprova
dell'adeguatezza  solo  teorica  dello  strumento  adottato  rispetto
all'obbiettivo che il legislatore, secondo la Corte, si proponeva.
    Il  reiterarsi  di  siffatti  provvedimenti ha in concreto invece
ingenerato  una  fondata aspettativa d'impunita' che il terzo condono
e' venuto solo a confermare.
    Gia'  la  sola  riproposizione  a  circa  dieci  anni di distanza
dall'ultimo  provvedimento  di  una  nuova  legge di sanatoria con la
medesima  struttura  della precedente dimostra la caducita' di quelle
aspettative   e   la  non  possibilita'  di  riprodurre  le  medesime
giustificazioni che basavano sull'emergenza e la necessita' di un suo
rapido superamento la giustificabilita' ordinamentale delle normative
del 1985 e 1994.
    Va  inoltre  osservato  come, in cospicui settori del territorio,
siano  stati proprio i due primi provvedimenti legislativi a produrre
nuovi e permanenti guasti in ragione delle perverse prassi (omissive)
adottate  dalle pubbliche amministrazioni che avrebbero invece dovuto
fungere  quale  primo  e principale presidio esecutivo del ripristino
della legalita'.
    E' affidabile al regime del notorio la circostanza che, in estese
zone  del  Paese, non escluse quelle di maggior pregio ove sussistono
vincoli   paesistici   ed  ambientali  ed  anche  rispetto  ad  abusi
certamente  non  sanabili per dimensione o per i limiti imposti dagli
artt. 32  e 33  della  legge  n. 47/1985, le centinaia di migliaia di
domande proposte ai sensi del capo IV di tale legge (solo nel modesto
ambito  territoriale  di  questo ufficio ne sono state proposte oltre
ventimila)  non  sono  state  neppure  prese  in considerazione dagli
uffici  competenti  con gravi conseguenze di fatto nei tre principali
settori   su   cui   si   riverberano  gli  effetti  della  normativa
condonistica   e   cioe'   quello  penale,  quello  civile  e  quello
amministrativo:  i reati previsti dall'art. 38 della legge sono stati
dichiarati estinti con la presentazione della domanda ed il pagamento
dell'oblazione, le sanzioni di cui agli art. 4 e 7 della legge citata
non  sono  state applicate in attesa della mai realizzata definizione
della  domanda  medesima,  gli  «abusi»  sono da oltre venti anni sul
mercato  immobiliare perche' trasmissibili inter vivos e mortis causa
ed  il  territorio, malgrado i «nuovi ed incisivi» strumenti posti in
essere  dalle leggi n. 47/1985 e 724/1994, non e' stato recuperato ad
un regime gestibile di normale fruibilita'.
    Un'osservazione «obiter» (ma non troppo, perche' anche il lessico
non  e'  mai  estraneo ai valori delle norme, al comune sentire ad ai
modelli culturali di comportamento) e' che ormai normalmente, laddove
gli  interventi  normativi predetti si confrontano con una dimensione
di abusivismo diffuso, il termine «condonato» riferito ad un immobile
illecitamente  realizzato  viene  ormai  comunemente adottato non per
indicare  l'avvenuto  rilascio  dell'atto  di  sanatoria, ma solo con
riferimento  alla rituale presentazione della domanda ed al pagamento
dell'oblazione.  E  cio'  perche' anche il mercato immobiliare non fa
distinzione in concreto tra le due ben diverse situazioni.
    Le  conseguenze di cio' sulla credibilita' delle sanzioni e della
stessa  funzione di prevenzione generale del sistema penale in questo
settore sono di raggelante evidenza.
    Questo il c. d. «diritto vivente».
    A   fronte   del   palese  fallimento  degli  obbiettivi  che  il
legislatore  si  proponeva,  tutti  i  motivi  che,  ex ante, avevano
consigliato   alla   giurisprudenza   della   Corte  di  ritenere  la
conformita'  costituzionale del secondo condono, non possono pertanto
essere oggi di supporto al terzo analogo provvedimento.
    Se  e'  vero  che  il  legislatore  ha facolta' di incidere sulla
punibilita'  dei  reati per conseguire, in una situazione particolare
data,  dall'autore  di  essi  prestazioni  utili e coerenti a fini di
carattere  generale,  la  realta'  ha dimostrato che lo strumento del
condono,  nel  settore  edilizio,  pur  nella complessa ed articolata
strumentazione  posta  in  essere,  non  solo e' del tutto inidoneo a
porre  fine  all'illegalita'  diffusa  con  il  recupero  di prassi e
culture   virtuose,   ma,   al  contrario,  ingenerando  una  fondata
aspettativa   d'impunita'   ha  addirittura  incentivato  il  ricorso
all'abuso  determinando  un  grave  vulnus  al territorio (ancor piu'
difficilmente   rimediabile  per  il  «consolidasi»  temporale  della
situazione   di  illegalita),  al  normale  meccanismo  della  giusta
retribuzione  dei  reati  e,  come  detto,  alla  stessa  funzione di
prevenzione generale delle specifiche norme incriminatici in materia.
    In  cambio  di un conferimento economico collegato ad una singola
legge  finanziaria,  la  normativa  del  titolo  secondo  della legge
n. 326/2003  affida  ora  ancora  una  volta ad un circuito meramente
mercantile  ed  in maniera oggettivamente definitiva altri dieci anni
di  illeciti  che il legislatore aveva ritenuto di punire con la piu'
intensa  delle  retribuzioni,  la  sanzione  penale: ed e' proprio la
credibilita'  di  quest'ultima, come dimostrato dal perdurare massivo
dell'abusivismo  edilizio,  la  principale  vittima  della  periodica
reiterazione dei provvedimenti di condono.
    Preconizzando  forse questi esiti, proprio la Corte aveva infatti
piu' volte sottolineato (sentt. nn. 416 e 427 del 1995) come una tale
soluzione  legislativa all'illegalita' di massa, ove fosse reiterata,
soprattutto  con  ulteriore  e  persistente  spostamento dei termini,
riferiti  all'epoca  dell'abuso  sanabile,  non  avrebbe  potuto piu'
trovare  giustificazione  sul  piano  della ragionevolezza, in quanto
avrebbe  finito  col vanificare del tutto le norme repressive di quei
comportamenti  che  il  legislatore  ha  considerato illegali perche'
contrastanti con la tutela del territorio.
    Ed e' sotto tale primo e principale profilo che si rimettono alla
valutazione  della  Corte le norme di cui all'art. 32 del d.l. citato
come convertito dalla legge n. 326/2003.
    Non  infondato  appare  il  dubbio di illegittimita' in relazione
all'art. 3   della   Costituzione,   per  la  irragionevolezza  della
disciplina del condono, che appare ormai del tutto sprovvista di quei
caratteri di straordinarieta' ed eccezionalita' che, soli, si ritenne
la    giustificassero,    perche'    sia   il   perdurante   fenomeno
dell'abusivismo  di  massa  sia  le  consuete  esigenze  del bilancio
pubblico non si presentano certo ormai con queste caratteristiche.
    Il   terzo   condono  infatti  non  appare  oggi  in  alcun  modo
collegabile  alla  tutela di valori oggettivi di eccezionale momento,
bensi'  ispirato esclusivamente da finalita' del tutto contingenti di
ordine finanziario.
    Rispetto  a  valori  oggettivi, il sistema costituzionale precisa
(ed  in maniera non generica) il fondamento, la finalita' ed i limiti
dell'intervento  punitivo  dello  Stato. Contraddire, vanificare, sia
pur   temporaneamente,   le   «ragioni   prime»  della  «punibilita»,
attraverso  l'esercizio  arbitrario  della «non punibilita», porta la
legge   ordinaria   a   confliggere   con  gli  artt. 3  e 112  della
Costituzione,     ed    ad    alterare,    insieme    al    principio
dell'obbligatorieta'  dell'azione penale e della pena, l'intero volto
del sistema costituzionale in materia penale.
    Se  la  «non  punibilita»  (in  questo  caso violatrice anche del
principio  di  uguaglianza  perche' discriminatoria nei confronti dei
cittadini  che  hanno ritenuto di ottemperare alle leggi ed ai limiti
imposti  dalla  normativa  urbanistica) viene inserita in un circuito
distorto  ed  irrazionale,  essa  entra  peraltro  indirettamente  in
contraddizione  anche  con  altre  fondamentali  esigenze  sottese al
governo del territorio tra le quali la sicurezza dell'esercizio dell'
iniziativa  economica  privata ed il suo coordinamento a fini sociali
(art. 41,  secondo  e  terzo  comma, Cost.) la funzione sociale della
proprieta'  (art. 42, secondo comma, Cost.) la tutela del paesaggio e
del patrimonio storico ed artistico (art. 9, secondo comma, Cost.).
    Poiche',  infine,  la Corte, in relazione all'art. 39 della legge
n. 714/1994,  aveva  individuato  elementi di novita' in alcune norme
che,   rendendo   la  sanatoria  piu'  restrittiva,  contribuivano  a
rafforzarne   l'intrinseca   «razionalita»   ed   a  giustificare  la
riapertura  dei  termini  di proposizione delle domande di sanatoria,
deve   osservarsi   come  non  sembrano  poter  oggi  incidere  sulle
argomentazioni  svolte in precedenza le modifiche apportate anche nel
terzo  condono  rispetto  ai  precedenti  di  cui  esso  riproduce  e
ripropone  invece  le illusioni, la struttura, i modelli concettuali,
le  prassi  esecutive, i destinatari e la «non punibilita» dei reati:
in  particolare,  con riferimento al principale profilo argomentativo
della  presente  ordinanza,  va  osservato  che  i  nuovi limiti alla
cubatura   complessiva   condonabile,   quelli  relativi  agli  abusi
consumati  in  zone  soggette  a  vincolo  ed  alcune altre modifiche
introdotte,    se    rendono    la   possibilita'   della   sanatoria
«amministrativa»  degli  abusi  piu' circoscritta, non incidono certo
sull'adeguatezza  storica  e  sulla  legittimita'  ordinamentale  del
provvedimento  che  conserva inalterata tutta intera la sua pregressa
estensione sotto il profilo penale in virtu' della conservata vigenza
dell'art. 39 della legge n. 47/1985.